5/26/2010

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22 maggio 2010
Scene e pitture (Füssli e altri)
Memorie lontane da una magnifica mostra e da palcoscenici d’antan

Ahi, che dispiacere, non aver potuto partecipare alla magnifica mostra “De la Scène au Tableau”, riunita da Guy Cogeval al Musée Cantini di Marsiglia, ora al Mart di Rovereto, e in seguito a Toronto. Mancanza di tempo serio, naturalmente. Ma soprattutto, limitazioni temporali – dalla fine del Settecento con David e Füssli all’alba del Novecento con Appia e Gordon Craig – che escludono ogni esperienza teatrale e visuale diretta, da raccontare. Un peccato, per chi nei giovani anni potè ammirare le scene e i costumi di De Chirico, Castrati, Cassinari, Cagli, Sironi, Clerici, i due Benois, Lila De Nobili, Léonor Fini, Eugene Berman, Salvatore Fiume, Foujita, Sciltian, Sassu, e Picasso, nonché Zeffirelli, Zuffi, Tosi, Pizzi, Ratto, Coltellacci, Damiani, Colonnello…

Ma le mie più lontane memorie del Neoclassicismo teatrale, purtroppo, risalgono ai memorabili colpi di calcagno e coturno di Maria Callas nella Medea alla Scala, e di Jean Marais nel Britannicus alla Comédie Française, per la risistemazione delle pieghe del manto pesante dopo la discesa di ciascun gradino. Senza la souplesse delle discese di Wanda Osiris cantando giù per scale ben più impegnative. Mentre la gestualità da statuaria greca tipica si ritrovava smandrappata fra centurioni scalcinati e legionari decrepiti – Pierre Dux e Pierre Fresnay, Bruti e Catoni e Pompei e Lentuli con gambe varicose, occhi bistrati, braccini molli, rughe frananti da vecchi setter, chiusura-lampo sulla corazza di plastica tipo sedile d’auto – nella Guerre civile di Montherlant che invece di liberarci dai Greci e dai Romani si ispira alla Farsaglia di Lucano (poeta chiamato da Marziale “l’Unico Cordovese”, come un torero). E sempre di Montherlant, sempre alla Comédie Française, tre ore senza intervallo di Port-Royal, alti portamenti e birignao di signore della scena, già “cameos” nei film Scalera e Itala e Invicta degli anni Quaranta, con le loro permanentine quasi albine, le alopecie da vecchi volpini, il riverbero del riflettore cheap nella doppia lacrimetta di glicerina: Germaine Kerjean, Annie Ducaux, Renée Faure, Berthe Bovy, Denise Noël. Ma suprema, l’eccelsa birbona Marie Bell, talvolta sublime Phèdre di Racine e talvolta birbantissima Voleuse de Londres in impiccagioni ottocentesche con un vecchio prefetto di polizia in preda a sconvenienti pâmoisons su “ces belles petites mains de voleuse”, sotto il patibolo. Ma (come con Edwige Feuillère), quale allure!

Questo catalogo di Rovereto è stupendo. Si va dal Gusto Neoclassico-romano – repubblicano in Francia, ma tutto Praz e “prazzesco” a Roma – a Romanticismi sempre più decadenti di Cleopatre e Cordelie e Ofelie moribonde o appena morte. Inginocchiamenti sempre più melodrammatici e scultorei di mamme enfaticamente disperate e piccini per cui noi si invoca Erode. Sempre più “a effetto”, i protagonisti dell’adorato Füssli che normalmente visitano supposte o sedicenti vergini con l’ombelico esposto e le chiappe muscolose all’aria. Musei Capitolini, signore mie! E quindi, sorvolando l’altrettanto venerato Gustave Moreau (Lila De Nobili ci guidava al suo allora ignorato museo, negli anni Cinquanta), si termina, con Cogeval, al minimalismo di Appia e Craig, opportunamente definito “stilizzazione emblematica” da Roland Barthes, quando le nuove avanguardie di mezzo secolo fa insistevano per abolire le scene dipinte e i costumi “da noleggio-veglione”, per il melodramma, senza tuttavia giungere alle successive mode di giubbottoni borchiati e coiti anali in occhiali neri.

Qui la memoria ritorna fatalmente a Bayreuth, perché lì negli anni Cinquanta Wieland Wagner operò la vera stilizzazione emblematica laddove le didascalie sceniche del nonno erano precisissime; e però gli apparati tradizionali erano andati distrutti. Là posso ricordare un remoto Fliegende Holländer con Anja Silja e Sawallisch direttore, solo col ritratto dell’Olandese in cui ovviamente Senta fa subito la sua agnizione. E anche dei Meistersinger dove un solo altare gotico isolato nel nulla rendeva tedioso (anche per chi aveva appena letto il testo) ogni dibattito sulla Tabulatur. Mentre poi al Maggio Fiorentino lo si seguì con interesse, grazie a un primo esperimento di traduzione su schermetto.

E certo, con grandissimo gusto si possono rivedere a Rovereto “classici” come i loggioni londinesi di Sickert o parigini dei Nabis, tra Paoli e Francesche nostrani che hanno ispirato ben poche opere memorabili, a parte qualche Hayez e il solito Imaginifico. E il suo preferito Michetti, qui ignorato. Così come forse andrebbero ricordate, in queste occasioni, le collezioni di Scapigliati e Macchiaioli acquistate da Arturo Toscanini per la sua dimora milanese in via Durini. E certi Ugonotti scaligeri ove un tenore bendato veniva condotto per misteriosi cammini al segreto castello di Chenonceaux, giusto allora reclamizzato dal Turismo Francese quale meta di vacanze economiche.

Si possono forse allora evocare, più o meno parallelamente, analoghe vicende da “amateur”. Tanti anni fa, tappezzando una mia prima casa milanese con le stesse carte usate da Cecil Beaton per lo studio del Professor Higgins nel film di My Fair Lady, il caro amico Giancarlo Marmori mi disse di andare da un antiquario “off” Montenapoleone, ove aveva acquistato per cinquemila lire delle antiche eliografie di Klimt. In pochi giorni, i prezzi si erano decuplicati, visto l’interesse; e mi fu raccontato che provenivano dalle vecchie mostre di “Bottega di Poesia”, prima della guerra. Comunque, ne rividi copie alla Barbican Gallery appena aperta, in occasione di una mostra viennese ispirata da Claudio Abbado, allora alla testa di una grande orchestra londinese. E lì, un direttore della Royal Academy disse trattarsi di “very expensive reproduction”, altro non so. Negli stessi primi anni Sessanta, a Salisburgo per un’ottima Ariadne auf Naxos e un magnifico Ratto dal Serraglio con Strehler e Mehta, trovato in una illustre galleria delle eccelse riproduzioni di Schiele. E a Parigi, da Ileana Sonnabend, costavano cinquanta dollari le più splendide litografie numerate e firmate di Roy Lichtenstein.

A Londra, nelle gallerie dietro la Royal Academy, si acquistavano ancora acquarelli di Max Beerbohm, lito di Maurice Denis, incisioni di Max Klinger e Félicien Rops e Fantin-Latour: apparentemente Figlie del Reno wagneriane, e invece danzatrici dai Troyens di Berlioz. Oltre tutto, nelle stradette delle cittadine in Rajasthan, i ragazzini correvano dietro per strada vendendo pagine strappate da codici miniati e analoghe a quelle in vendita sottovetro dagli antiquari nelle capitali. E a Kathmandu i monacelli (poi scomparsi) acquarellavano rapidamente all’aperto le vecchie stampe sacre su carta di stracci.

Si era intanto praticamente scoperto Füssli (protagonista shakespeariano a Rovereto) in una serie di retrospettive davvero epocali ad Amburgo: dedicate a Ossian, C. D. Friedrich, William Blake, J. T. Sergel. Insomma, nei primi anni Settanta, i “Pittori dell’Immaginario” cui presto Giuliano Briganti avrebbe dedicato un appassionato studio. (Le mie recensioni sul “Corriere della Sera” sarebbero poi apparse in Il Meraviglioso, anzi).
E così mi chiama un antiquario romano, che m’aveva già venduto dei mirabili Piranesi, tutt’altro che del genere (come si diceva scioccamente) “da anticamera del notaio”. Sta disfacendo, col cuore in lacrime, un paio dei meravigliosi album di incisioni shakespeariane dell’editore Boydell (Londra, 1797 e 1802). Certe già acquarellate, per le committenze di una catena alberghiera, ma talune ancora intatte. Si prendono così dei sensazionali Füssli, colorati o no: due gruppi d’insieme del Sogno; un Amleto con lo Spettro, due Macbeth con le Streghe; una Tempesta sua, e una di George Romney. Nonché un Cymbeline molto füssliano di John Hoppner; e un’Ofelia pazza di Benjamin West molto somigliante alle indimenticabili recite della Compagnia D’Origlia-Palmi nei sotterranei vaticani della nostra gioventù. Con un buffone che diceva alla regina: “Madamigella Ofelia desidera parlarvi”. “Uffa, quella noiosa”, ribatteva quella. “Ma è pazza!” replicava il buffone. E la regina allargava le braccia: “Vabbè, quando è così”. Allora, entrava lei – puro Benjamin West – strillando “Rosmarino! Rosmarino!”. E le suore nell’audience applaudivano commosse.
Su quali fondi, però, i Piranesi e i Füssli?

Stanno bene su tutto. A Milano e a Roma. Su pareti monocrome come su stoffe rigate e tappezzerie di William Morris o di Nobilis “de Paris”. Sull’intonaco chiaro, però naturalmente, i bianco-e-nero. Preferibilmente Amleto e Macbeth accanto a un tramonto piranesiano sul Quirinale ancora senza obelisco, a un grande tempio di Paestum, già appartenuto a Silvio D’Amico e trasmesso da suo figlio Sandro per il loro divertimento alle mie critiche sui “mostri sacri”. Accanto, una colossale triremi, parecchi “camini” piranesiani, qualche piccola Musa o Salomé di Gustave Moreau. E gli acquarellati? Per accompagnarli, disfeci un album di Max Ernst, regalo di Alexander Iolas che mi disse: “Ti rendi conto che hai distrutto un valore?”. Sotto le tavole dal Boydell, oltre tutto. Spontaneamente risposi che così mi potevo godere il suo dono ogni giorno, mai mi sarei sognato di commerciarlo.
Fra i doni degli amici artisti – Maccari, Testori, Scialoja, Pasolini, Giosetta Fioroni, Lorenzo Tornabuoni, Colette Rosselli, Fabrizio Clerici… – un dono di Guttuso è particolarmente teatrale, nel senso della mostra a Rovereto. Per tutta una sera, a tavola, si era fatto raccontare minutamente Le Concile d’Amour che aveva appena visto a Parigi nell’allestimento della comune amica Léonor Fini. Ma soprattutto, perché Das Liebes Koncil dell’anarchico tedesco Oskar Panizza era un piccolo classico della sua gioventù di sinistra. La mattina, il suo factotum Rocco mi portò un suo dipinto dedicato ove si riproducevano visivamente le mie descrizioni verbali. Un bigliettino diceva solo che non era riuscito a dormire.

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